Un Rigoletto en travesti per divertire la corte del Duca di Mantova

Una regia che ha diviso, nella serata che preannunciava la notte in cui si svolgevano le elezioni americane: da un lato i conservatori, tradizionalisti che non hanno apprezzato, dall’altro chi ha provato ad avere uno sguardo aperto, scevro di pregiudizio e che ha trovato azzeccata la regia di Alessio Pizzech.

Ricordiamo innanzitutto da dove arriva quest’opera. Il libretto è scritto da Francesco Maria Piave prendendo spunto da Le Roi s’amuse di Victor Hugo, un dramma che criticava fortemente i vizi di corte, gli sprechi, gli abusi e la ricerca ostentanta della trasgressione in tutti i sensi, per sfuggire alla noia della vita aristocratica. Sia la messa in scena di Hugo che quella di Giuseppe Verdi subirono la censura tanto che il compositore decise di cambiare la sede di svolgimento dei fatti, scegliendo il palazzo del Duca di Mantova, sbloccando così la rappresentazione.

Il regista osa, e sceglie, come figura di trasgressione dell’immaginario collettivo attuale, una drag queen ma con il volto spalmato di cerone bianco alla Pierrot. L’immagine della derisione, da un lato, per una fetta di società misogina e omofoba, e la solitudine umana privata di ogni sentimento di amore per se stesso. Molti hanno sentito la mancanza della gobba, ma non hanno visto che è stata spostata dalla schiena all’interno, una gobba di dolore opprimente che si espande e pervade l’espressione tutta.

Quando termina il suo lavoro, apre la valiga, estensione di sé, e si cambia per tornare a casa dalla figlia che non conosce quasi nulla di lui e della sua attività. Quello che ci appare è un uomo qualunque, a metà tra il Borghese piccolo piccolo di Sordi e il Calvero di Charlie Chaplin, in Luci della Ribalta. Un personaggio ritroso, schivo, anonimo, che porta la solitudine incisa a fuoco nel suo dna.

Quindi ci sono le donne, anch’esse abusate e usate dal Duca e dai cortigiani. Sono ragazzine, all’inizio dell’adolescenza, e non c’è da scandalizzarsi: all’epoca venivano utilizzate per divertimento oppure promesse spose al nobile di turno a dodici tredici anni. In questo allestimento sono bamboline, snodate per appagare ogni desiderio ma prive di qualsiasi possibilità di movimento autonomo. Un applauso particolare è da dedicare agli allievi della Scuola di Teatro di Bologna Alessandra Galante Garrone, che recitano e si muovono da veri professionisti.

Anche Gilda, la figlia di Rigoletto, è una bambola chiusa in un armadio di bambole, per proteggerla da un mondo che potrebbe ridurla come i manichini di palazzo, autorizzata a muoversi dal suo rifugio imposto, al tempio e guardata a vista da una corruttibilissima governante.

La regia di Alessio Pizzech, coadiuvata dalle scenografie di Davide Amadei, i movimenti scenici diretti da Isa Traversi, i costumi di Carla Ricotti e le luci di Claudio Schmid provocano, azzardano, stimolano ma con grande maestria e senza mai cadere nel grottesco o nel facilone. La critica del déjà-vu non passa: dopo oltre duemila anni di produzione creativa è quasi impossibile creare cose nuove, originali ma si possono mettere insieme cose già create in maniera nuova e originale. Quella che si è vista sul palco del Comunale è arte, che piaccia o no.

Il cast se è stato strepitoso dal punto di vista attoriale, lo è stato meno dal punto di vista canoro e l’orchestra sembrava, a tratti, avere fretta. Il problema forse è da attribuire alle non buone condizioni di salute del direttore Renato Palumbo che, come annunciato prima dell’inizio dello spettacolo, ha voluto essere presente e dirigere malgrado lo affliggesse una pesante broncopatia. Quindi gli rendiamo onore per lo sforzo e andrà sicuramente meglio nelle repliche che si susseguiranno da qui al 18 novembre.

Per info e bigletti: www.tcbo.it

(foto: Rocco Casaluci)

Il regista Alessio Pizzech racconta il suo Rigoletto.