L’autoproclamazione a presidente di Juan Guaidò e l’appoggio instantaneo di Paesi come gli Usa di Trump e il Brasile di Bolsonaro rappresentano un tentativo di golpe in Venezuela. Più complessa e articolata l’analisi di come si sia prodotta questa situazione e il presidente Maduro non è esente da responsabilità. La corrispondenza di Perez Gallo.
La situazione istituzionale del Venezuela sembra precipitata nelle ultime 24 ore, da quando il presidente dell’Asamblea Nacional, Juan Guaidò, si è autoproclamato presidente ad interim fino a nuove elezioni, ottenendo l’appoggio di attori internazionali del calibro degli Usa di Trump, del Brasile di Bolsonaro, del Canada di Trudeau, insieme a storici “rivali” latinoamericani del Venezuela, come la Colombia.
L’Asamblea Nacional del Venezuela è controllata per i due terzi dalle opposizioni, ma il Tribunale Supremo venezuelano aveva dichiarata illegittima l’assise.
Il presidente venezuelano Nicolas Maduro, dal canto suo, mantiene il controllo e la fedeltà dell’esercito e non sembra intenzionato a cedere il potere e farsi intimidire da quello che, a tutti gli effetti, è un tentativo di golpe con l’appoggio e l’ingerenza di potenze occidentali.
E proprio sul piano internazionale la questione appare al centro di interessi geopolitici. Gli Stati Uniti di Donald Trump hanno dichiarato di lasciare aperte tutte le opzioni su un loro possibile intervento, anche quella militare qualora scattasse la repressione di Maduro contro le opposizioni.
Per contro, la Russia ha “diffidato” gli Usa dall’intervento armato.
Gli scenari possibili per una soluzione della crisi politica in Venezuela, dunque, appaiono piuttosto drammatici. Nell’impossibilità di prevedere come evolverà la situazione, è utile forse cercare di comprendere come si sia arrivati a questo punto.
“Erede” di Hugo Chavez, Maduro ha tentato di portare avanti in questi anni le politiche del suo predecessore, che erano riuscite per un certo periodo a cambiare il baricentro geopolitico e ad aumentare i livelli di redistribuzione della ricchezza nella società venezuelana.
Maduro però ha dovuto fronteggiare una fortissima crisi economica, i cui effetti si sono fatti sentire in modo ancor più forte a causa del modello produttivo venezuelano.
“Il modello rentista, cioè basato sulla rendita del petrolio, non è mai cambiato nel Paese” osserva ai nostri microfoni Perez Gallo, dottorando di studi latinoamericani che ora si trova in Brasile.
Il crollo della quotazione del petrolio ha aperto una voragine nei conti pubblici del Paese, che con quelle entrate aveva coperto programmi di edilizia popolare e si era assicurato liquidità per l’acquisto di generi alimentari all’estero.
Dal predecessore, Hugo Chavez, Maduro aveva ereditato le politiche petrolifere, indebitando il Paese con l’estero e portando avanti la nazionalizzazione delle imprese estrattive.
La crisi del petrolio, però, ha messo in difficoltà il Venezuela. Una crisi che Maduro attribuì agli Stati Uniti e ai produttori vicini alla destra, accusati di tagliare la produzione per sabotare l’economia.
Al contempo, il governo venezuelano reagì stampando moneta e aumentando l’inflazione, ma l’effetto che ottenne fu l’aumento dei prezzi del cibo e lo spostamento dei prodotti verso il mercato nero.
La crisi ha morso molto, al punto che il prezzo di molti prodotti, dal cibo alle medicine, in Venezuela si è moltiplicato di centinaia di volte, mettendo in ginocchio la popolazione.
Il governo ha più volte puntato il dito contro le opposizioni per la situazione che si era prodotta. Sospetti che nascevano anche dal tentato golpe del 2002 ai danni di Chavez e dalle amicizie con potenze imperialiste dei suoi esponenti.
Di fronte al rischio di una perdita di consenso, però, Maduro ha dato il via alla repressione e al restringimento della democrazia.
I principali provvedimenti presi dal governo o dagli organi che controlla sono stati l’esautoramento dell’Asamblea Nacional eletta nel dicembre 2015 e dominata dalle opposizioni, il blocco del referendum revocatorio promosso dalle opposizioni contro Maduro, l’elezione di una Assemblea Costituente, preceduta dal rifiuto di tenere un referendum preventivo per deciderne la stessa elezione, che di fatto ha soppiantato l’Asamblea Nacional, l’inabilitazione di candidati presidenziali potenzialmente competitivi, l’invalidazione di governatori antichavisti regolarmente eletti ma che rifiutano di giurare fedeltà all’Assemblea Costituente e la modificazione delle date previste per le varie scadenze elettorali in funzione degli interessi del governo.
Mentre Maduro si arroccava, le opposizioni tentavano l’assalto al palazzo, promettendo di mettere fine alla crisi economica attraverso il recupero della fiducia presso attori come gli Stati Uniti, grazie ad una maggior credibilità e alle relazioni dei suoi esponenti, ed un piano di liberalizzazioni.
Eppure, Maduro ha conservato il consenso popolare e ha sempre vinto le elezioni. Fino al 2013, inoltre, gli osservatori internazionali hanno sempre convalidato i risultati.
I problemi sono sorti nell’aprile del 2018, alle elezioni anticipate a cui l’opposizione non ha quasi del tutto partecipato, e che si sono svolte con accuse di brogli e forti sospetti di irregolarità.
“Il tentato golpe era nell’aria già da tempo – osserva Perez Gallo – ma oggi personaggi come Bolsonaro o Trump mostrano tutta la loro ipocrisia nell’appellarsi al rispetto dei diritti umani in Venezuela. Stiamo parlando di potenze occidentali imperialiste, che hanno finanziato e sostenuto i colpi di Stato in tutta l’America Latina negli ultimi 200 anni”.
Lo zampino imperialista e le sue ingerenze, del resto, era stato evocato due anni fa anche dal presidente dell’Ecuador Rafaél Correa, che aveva paventato un “Nuovo Piano Condor”.
Quel che succederà ora è più che mai incerto, poiché anche in America Latina gli equilibri sono cambiati. La forza popolare delle sinistre, dalla fine della stagione dei desaparecidos a oggi, sembra scontrarsi con nuovi assetti, che hanno portato all’elezione di Bolsonaro in Brasile, per fare un esempio.
ASCOLTA L’INTERVISTA A PEREZ GALLO: