Dalla ricercatrice che risponde alla ministra Giannini alla morte di Giulio Regeni. In Italia si torna a discutere dei “cervelli in fuga”, ma la struttura demografica delle Università italiane rimane gerontocratica e la riforma Gelmini ha peggiorato le cose. A Bologna in scadenza 100 ricercatori. Una fotografia su come il Paese tratta le sue menti.

I riflettori dei media, in questi giorni, sono tornati ad accendersi sulla condizione dei giovani ricercatori italiani.
Da un lato l’uccisione di Giulio Regeni, giovane ricercatore italiano per l’Università di Cambridge, dall’altro la risposta di una ricercatrice italiana ai meriti che la ministra Giannini cercava di prendersi a proposito della scoperta sulle onde gravitazionali, hanno riaperto lo storico dibattito sulla cosiddetta “fuga dei cervelli” e su ciò che spinge le giovani menti italiane ad andare all’estero.
A certificare le difficoltà dei giovani ricercatori italiani in patria, ormai, c’è una cospicua letteratura, fatta di dati ed analisi. Una di queste ultime è quella di Alessandro Rosina, docente di Statistica all’Università Cattolica di Milano e autore del libro “Non è un Paese per giovani“.

L’Italia sconta una struttura demografica gerontocratica all’interno delle Università – spiega il docente – con molti professori over 65, che oltretutto costano molto a causa degli scatti di anzianità”. Se si unisce questo aspetto alla cronica scarsità di finanziamenti alla ricerca e per l’innovazione, ecco che i giovani studiosi italiani sono sempre più spinti ad andare all’estero, dove trovano maggiori riconoscimenti per il proprio lavoro e strutture più avanzate dove svolgere le proprie ricerche.
Servirebbero scelte drastiche – osserva Rosina – sia sul versante degli investimenti, sia per ringiovanire la popolazione accademica”.

Gli ultimi dati Istat sugli espatri parlano chiaro. Se a inizio secolo i laureati che lasciavano l’Italia erano circa il 12%, negli ultimi anni sono ormai il 30%. Ancor più significativo l’esodo dei dottori di ricerca, raddoppiato nei soli ultimi 3 anni.
All’estero, solitamente, il trattamento che ricevono è migliore, dal momento che i talenti italiani sono piuttosto apprezzati.
“Anche la produttività scientifica dei ricercatori italiani, soprattutto giovani – osserva il docente – è piuttosto rilevante. I giovani ricercatori italiani sono competetivi, anche grazie ad una crescente presisposizione al cosmopolitismo, che li agevola anche nella stesura di paper in inglese”.

Il trattamento che l’Italia riserva ai propri giovani, però, ha un costo sociale per l’intero Paese. Spesso, infatti, si spendono soldi per la formazione e la preparazione dei professionisti, di cui però beneficieranno Stati esteri. Aggiunto al problema dei “neet“, ciò rende evidente la poca lungimiranza del sistema italiano.
“È come se investissimo in un vivaio di giocatori – osserva Rosina – ma, al momento di farli giocare, li tenessimo in panchina o li regalassimo alle altre squadre”.

I meccanismi coi quali i giovani studiosi italiani vengono bistrattati, però, non sono solo un luogo comune ormai proverbiale. Ci sono meccanismi e provvedimenti precisi che hanno generato o peggiorato la situazione.
Stiamo pagando gli effetti perversi della riforma Gelmini – spiega ai nostri microfoni Maurizio Matteuzzi, docente di Filosofia del Linguaggio all’Università di Bologna e membro dell’Intersindacale – La riforma ha trasformato lo status di ricercatore a tempo indeterminato in precario“. Il sistema pensato dal legislatore prevedeva che i ricercatori a tempo indeterminato fossero messi in esaurimento col passaggio a professore associato, che già soddisfa una parte insufficiente di ricercatori.

La nuova figura, in gergo Rtd (Ricercatore a tempo determinato), prevede un contratto della durata di 3 anni, rinnovabili una volta sola. Sommati agli anni per il dottorato e a tutto il percorso accademico, se un ricercatore non riesce a diventare professore rischia di finire in mezzo ad una strada a 45 anni.
Ad aggravare la situazione è l’inadempienza del Miur. “La legge prevedeva che ogni anno si svolgesse un’abilitazione a professore – sottolinea Matteuzzi – ma dopo i primi due anni il Ministero si è incartato e ora l’abilitazione manca da tre anni“.

Se è vero che la Legge di Stabilità consente di rinnovare i contratti in scadenza fino al 31 dicembre, il rinnovo è però a carico dell’Università e non tutti gli Atenei se lo possono permettere.
“A Bologna, in realtà, siamo messi abbastanza bene rispetto al resto d’Italia, perché la nostra è una delle Università più ricche – osserva il docente – ma il meccanismo resta sbagliato”.
Proprio ieri, l’edizione locale di Repubblica riportava che all’Unibo ci sono 100 ricercatori che rischiano il posto e, nonostante l’interessamento del Rettore, non è detto che potranno essere salvati tutti i posti di lavoro.

Anche a Bologna, inoltre, c’è un’ulteriore casistica. Sono ricercatori che hanno vinto un bando nazionale e che hanno portato ai dipartimenti molti più soldi rispetto ai loro stipendi. Essendo però vincolati al progetto, i loro contratti non sono però rinnovabili. “Una problematica – racconta il professore – che ho sottoposto al Rettore Ubertini e speriamo che venga risolta”. Anche se a Bologna va meglio che altrove, però, è difficile “preparare un brodino per curare il cancro”.

“Per far passare la riforma Gelmini – si sfoga Matteuzzi – siamo stati oggetto di una campagna mediatica infamante, che sosteneva che l’Università italiana fa schifo e che ci sono le baronie. Eppure, nonostante tutto, siamo al 7° posto nel mondo“.
Per citare un esempio di come all’estero investano sull’istruzione, il docente riporta la situazione dell’Università di Harvard, che da sola riceve finanziamenti pari alla metà delle risorse spese dall’Italia per tutto il sistema accademico italiano, che sono circa 7 miliardi.