Si parla spesso dei Centri di identificazione ed espulsione, i drammi che lì accadono, i diritti che non ci sono. Ci siamo rivolti a chi giornalmente lavora alla difesa legale dei migranti.
Cinzia Brandalise è dottoressa praticante abilitata al patrocinio, collabora con l’Avvocato Gianandrea Ronchi. Nell’intervista che potete ascoltare e/o leggere, spiega quali sono le difficoltà legali, burocratiche e inevitabilmente umane. E’ sorprendente il paragone con il carcere: i Cie pur essendo di fatto centri di detenzione mancano delle regole e tutele del sistema penitenziario italiano.
Cosa sono i Cie, come sono nati e che differenze ci sono con i precedenti Centri di permanenza temporanea (Cpt) ?
I Cie nascono nel 2008 all’interno del pacchetto sicurezza (voluto dal governo Berlusconi e dal Ministro Maroni), per contrastare fenomeni di criminalità diffusa legati all’immigrazione illegale e alla criminalità organizzata. L’acronimo è sintomatico della temporaneità del centro: il fine è identificare ed espellere nel minor tempo possibile. Rispetto ai Cpt, previsti dalla legge Turco Napolitano (1998, governo Prodi I), le novità sono nella maggiore rapidità di espulsione e nell’inasprimento delle pene. Il problema è proprio la durata del trattenimento nei Cie: era stato pensato come massimo di 60 giorni, ma oggi può arrivare fino a 18 mesi. Per un avvocato è molto difficile far capire al cittadino straniero questa durata assolutamente indefinita. I tempi non sono stringenti come nel sistema carcerario, dove abbiamo un’ampia previsione delle tutele penali e dove il detenuto ha una conoscenza e una consapevolezza della pena che deve espiare. Nel Cie durante questo massimale di tempo di 18 mesi, assistiamo a incontri convocati dal giudice di pace, questo comporta condizioni di vita soggettiva e psicologica dello straniero assolutamente delirante. Non c’è alcuna certezza sull’uscita, sul domani.
L’aspetto temporale e le condizioni di vita sono legate. Tutti abbiamo sentito notizie di tentativi di fuga, risse, incidenti, morti. Tutto questo fa parte del sistema Cie, è una sua parte integrante?
Assolutamente sì. La volontà è quella di portare le garanzie, che mi sento di dire minime, del sistema penitenziario italiano nei Cie. Si dovrebbe poter prevedere pene alternative, come gli arresti domiciliari. In realtà la direttiva comunitaria “Rimpatri” prevede ad esempio un obbligo di dimora alternativo rispetto al Cie, ma in condizioni eccezionali e stringenti, come la detenzione del passaporto o del documento di identità. Il che è paradossale perché chi è detenuto in un Cie è lì per essere identificato, in quanto non è in possesso di un documento. Chi risente maggiormente di questa situazione sono le persone “vulnerabili” (il termine è tecnico), anziani, disabili, disagiati fisici o mentali. La normativa anche in questi casi non prevede la possibilità di intervento degli avvocati per proporre pene che siano alternative al trattenimento nel Cie. Se qualcuno ha una patologia, il legale può vantare le condizioni durante udienze di convalida e proroga del trattenimento, ma non c’è possibilità di una norma di intervento. L’avvocato allora può ricorrere allo strumento dell’autotutela amministrativa presentando istanze alla questura, alla prefettura. I detenuti spesso si sentono soli, depressi, senza relazioni, rispetto al carcere non esistono attività ricreative o lavorative. Questo comporta, a lungo andare, una situazione di malessere in cui accade che l’unico modo per uscire sia compiere atti di autolesionismo.
Alla luce di quanto hai raccontato, per un avvocato che deve difendere e consigliare il proprio cliente, è difficile capire cosa sia meglio per lui, la sua vita, il suo futuro. E’ impossibile capire se è meglio che rimanga in Italia o che sia espulso, in che modo può ricongiungersi con i suoi familiari.
E’impossibile perché la normativa non prevede la possibilità di intervento dell’avvocato. In carcere il detenuto, tramite l’avvocato, può richiedere visite mediche, colloqui per i familiari … e un giudice ha la competenza per valutare l’accogliemento di queste istanze. Per i Cie, non è possible, si cercano allora procedure, prassi da standardizzare tra colleghi, si cerca una dialettica con questura e prefettura che permettano interventi specifici. Ma sono conquiste quotidiane che si tende a voler raccontare, diffondere per raggiungere una prassi comune. Poi c’è la questione del lavoro, molti stranieri trattenuti nel Cie avevano un lavoro irregolare, e chiedono all’avvocato di poter uscire e tornare al lavoro. Anche qui c’è un altro vuoto normativo: non è possibile avere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Ci sono le sanatorie, l’ultima nel 2009 per colf e badanti, oppure la normativa in modo settario prevede la possibiltà di richesta del permesso attraverso i flussi d’ingresso. Non esiste il sillogismo ho un lavoro, voglio un permesso. Questo lascia i lavoratori stranieri fuori dalle tutele del diritto del lavoro, che gli andrebbero garantite indipendentemente dalla regolarizzazzione del permesso di soggiorno. Quando poi lo straniero viene espulso dall’Italia, ha tra sette e trenta giorni per andare via in modo volontario, esce dal Cie e deve trovarsi un dormitorio, se ha bisogno di cure non può goderne. Fa amaramente sorridere l’episodio di qualche mese fa di uno straniero che ha chiesto di poter tornare nel Cie di via Mattei a Bologna perché non sapeva dove andare, almeno lì aveva da mangiare.
Parliamo del rapporto avvocato – cliente straniero. Sicuramente non si configura come un rapporto tradizionale. L’avvocato è spesso l’unico appiglio del migrante, tra difficoltà linguistiche e tutte le altre che hai detto finora. Ti chiedo di raccontarci come è questo rapporto, e quando consapevolezza ha lo straniero di tutto quanto gli si rovescia addosso.
La fiducia è sempre l’essenza del rapporto cliente avvocato. Il primo momento in cui avvocato e cliente si incontrano è quando lo straniero rivece l’istanza di espulsione e trattenimento temporaneo nel Cie, l’avvocato ha tempo 48 per fare le sue istanze davanti al un giudice di pace, che tra l’altro di solito non si occupa di libertà personale, che deve poi convalidare l’atto. In quell’occasione c’è un interprete, spesso non di lingua madre, ma di una considerata vicina. I contatti formali comprendono anche le udienze di proroga, le prime due ogni 30 giorni, e le visite, circa una volta alla settimana, utili per valutare le condizioni di vita e concordare la strategia difensiva. Il problema è che lo straniero in quella condizione di spaesamento, depressione, isolamento, e di difficoltà linguistica, non ha la comprensione di quello che accade. E’molto difficile spiegare una materia così complessa. Spesso chiede “voglio uscire, voglio lavorare, voglio tornare a casa”. Davanti a queste richieste e alle difficoltà linguistiche non bisogna rassegnarsi o rilassarsi all’idea che in qualche modo non capisca cosa l’avvocato sta facendo.