Che il sistema sanitario pubblico italiano sia invidiato in molte parti del mondo, nonostante i suoi mille problemi, è cosa nota, ma c’è un ulteriore elemento che lo vede primeggiare, almeno in Europa. Il nostro Paese, infatti, nel 2018 si è dotato di una legge che introduce l’approccio di genere nella medicina e nel giugno scorso ha adottato un piano per la sua applicazione.
Frutto dell’esperienza e degli studi di circa un decennio, l’approccio di genere nella medicina si è rafforzato negli ultimi tre anni, quando è stata aperta un’apposita sezione presso l’Istituto Superiore di Sanità e quando è spuntato il primo centro accademico sul tema, presso l’Università di Ferrara.
Ma cos’è la medicina di genere? A spiegarlo, durante un incontro al festival di Internazionale che si è svolto nella città estense, è stata Alessandra Carè, referente del Centro per la Medicina di Genere proprio all’Istituto Superiore di Sanità.
Uomini e donne sono diversi sia dal punto di vista biologico (il sesso e i cromosomi), sia dal punto di vista socio-culturale (i ruoli di genere), ma fino a poco tempo fa la medicina non ne teneva conto, applicando le stesse diagnosi e cure ad entrambi.
Uno dei problemi maggiori, è che le ricerche e le sperimentazioni, ad esempio per i farmaci, per lungo tempo si sono svolte solo sugli uomini o, quando prevedevano anche un campione di donne, non è stata fatta un’analisi differenziata dei dati raccolti.
Il risultato è che, statistiche alla mano, molti delle diagnosi e delle cure hanno penalizzato le donne, sia per i tempi di intervento, sia per l’efficacia delle cure che per la qualità e l’aspettativa di vita.
“Ad esempio sappiamo che le donne hanno un sistema immunitario molto più efficiente – ha osservato Carè – Questo è sicuramente un vantaggio per quanto riguarda le patologie virali e la risposta ai vaccini, ma è uno svantaggio per quanto riguarda le malattie autoimmuni, quelle dove il nostro sistema immunitario si rivolta contro noi stessi”.
Un esempio che, se fosse tenuto in debita considerazione, permetterebbe di avere un approccio differenziato che rivoluzionerebbe la diagnosi e la cura di molte malattie, rendendole più efficaci.
“Il primo caso che mise in evidenza la necessità di una medicina di genere – ha continuato l’esponente dell’Istituto Superiore di Sanità – fu sollevato da una cardiologa negli Stati Uniti, che constatò come l’approccio dei colleghi nei confronti delle donne per quanto riguarda le malattie cardiovascolari fosse meno attento rispetto a quello riservato agli uomini. Ciò per la convinzione che questo tipo di malattie colpisse soprattutto gli uomini”. Una convinzione che non è suffragata dalla statistica, ma che può incidere molto sulla vita delle pazienti, anche a causa di una diversa manifestazione dei sintomi. “Le donne lamentano dolore di stomaco e fatica a respirare, quindi al Pronto Soccorso possono essere indirizzate verso il reparto di gastroenterologia, perdendo molto tempo e incidendo sul risultato che si può ottenere”, ha sottolineato Carè.
Un altro caso riguarda il tumore al colon, che nelle donne solitamente si sviluppa in un tratto più alto, quello ascendente, rispetto agli uomini. In questo caso lo screening che ricerca tracce di sangue nelle feci può produrre nelle donne dei falsi negativi, procrastinando anche di sei mesi la diagnosi.
Anche la sperimentazione dei farmaci sconta lo stesso problema. Fino a poco tempo fa la sicurezza dei medicinali veniva testata esclusivamente su uomini di circa 70 chilogrammi di peso. Ciò ha creato numerosi problemi, come un’insorgenza più frequente di effetti collaterali nelle donne.
Se, al contrario, si considerasse che le donne hanno un sistema immunitario più efficiente, si potrebbe arrivare a somministrare metà della dose, in modo da ridurre gli effetti collaterali.
Lo stesso discorso vale per la ricerca che, anche quando include la sperimentazione su donne, non arriva ad un’analisi differenziata dei risultati, perché questi vengono analizzati nell’insieme, facendo poi una media.
“Un caso che ho letto di recente – racconta Carè – riguarda un vaccino contro l’herpes virus che è stato abbandonato perché non ha prodotto i risultati sperati. Ma analizzando i dati scorporati, si scopre che per gli uomini la risposta è stata soltanto dell’11%, quindi effettivamente trascurabile, mentre per le donne risultava del 73%, quindi con una prospettiva molto diversa”.
Alla luce di tutte queste considerazioni, ecco che l’approccio di genere nella medicina consentirà di rianalizzare e reimpostare tutti gli studi e le cure allo scopo di curare meglio le persone.
“Ci vorrà tempo – ammette Carè – perché gli scogli sono anche di natura economica”, senza considerare le resistenze di tipo culturale che esistono anche nell’ambiente medico.
La legge italiana, insieme all’inserimento dell’approccio di genere nei corsi di laurea di medicina e chirurgia, però, hanno già tracciato una direzione.
ASCOLTA L’INTERVENTO DI ALESSANDRA CARÈ: