Il compiacimento del gusto, l’utilizzo onnivoro delle arti, il contornarsi di un mondo fantastico fatto di un’ apparente leggerezza dell’essere.
Nasce sull’onda dello stile simbolista e sulla filosofia del liberty. Si impone in Italia negli anni 20 in un proliferare di manufatti artistici che vanno dalla preziosa lavorazione dei tessuti (De Pero, Nizzoli, Mariano Fortuny), dall’infinita creatività ceramista (Barovier, Andlovitz, laboratorio La Salamandra), del vetro soffiato (Cappelin & C., Vetreria fratelli Toso, Martinuzzi di Burano) ed ancora del ferro battuto, dei mobili in legno, dei mosaici, degli abiti, dei bronzi, dei posters e, naturalmente, di una ricca collezione di dipinti ad olio, litografie, pastelli ecc.
Tutta una serie di manufatti di grande qualità che hanno messo le basi per lo stile italiano, quel made in Italy che ancora oggi è un mito nel mondo e che rimane una delle grandi chances del nostro paese per ricavarsi una proficua nicchia della concorrenza della globalizzazione commerciale.
Un gusto leggiadro, apparentemente spensierato, ma al contempo ricco di quella tragicità che divenne l’estetica di Gabriele D’Annunzio. Un istinto onnivoro che si appropria della classicità con le invenzioni di Giò Ponti, del fascino dell’esotico e di un oriente in bilico tra le narrazioni salgariane e le scene della pucciniana Turandot, nel simbolismo rivissuto nel Ritratto di Wally Toscanin di Alberto Martini o nel naturalismo animalista di Libero Andreotti.
Un mondo in cui la donna si emancipa negli sguardi, nelle vesti e nella nudo femminile, dove la malizia e la seduzione non sono più solo patrimonio delle “donne perdute”.
Così il Bacio di Klimt si trasforma nella Primavera di Galileo Chini, mentre la tradizione ceramista faentina ritrova con Nonni o Gaeta la modernità novecentesca. Sono gli anni in cui l’estrema eleganza delle porcellane di Richard Ginori conquistano Parigi e, quindi, anche il mondo. Capolavori di orificeria sono racchiusi nella “stanza del tesoro” a circondare la bellezza del Canova: le cesellature in oro di Alfredo Ravasco non hanno proprio nulla da invidiare a nomi più conosciuti come quello di Cartier. All’interno del percorso espositivo troviamo anche una sezione legata all’architettura, con gli studi per palazzi di Piero Portaluppi, così intrisi di linea deco.
Il tutto viene introdotto da una galleria di statue, ricca di nomi quali Arturo Martini, Ivan Mestrovic e l’immancabile presenza a Forlì di Adolfo Wildt: opere massiccie, drammatiche, che fortemente contrastano con la leggiadria della produzione deco, ma che con essa ritrovano un punto comune in un epoca che cercava nel bello, e forse anche nell’effimero, la possibilità di viversi fino in fondo la giornata, un carpe diem che non vuole guardare davanti a sè in un secolo che sta preparando le grandi tragedie del novecento.
Una mostra tutta da vedere per riempirsi gli occhi della bellezza disperata racchiusa all’interno dell’oggetto. Non mancano poi nomi di prima grandezza dell’arte italiana come De Chirico o Giacomo Balla.
Presto la decadenza dello stile: la maschera scivola e mostra il teschio con tutto l’orrore del secolo breve e il gusto deco prende forma nelle icone di Tamara de Lempicka, che ne diverrà importante testimone.
L’Art Deco come una meteora che respira il suo fulgore dalla metà degli anni venti senza oltrepassare il decennio successivo. Vivrà altrove, oltreoceano, nelle decorazioni dei grattacieli del dopo 1929, nei miti della macchina dei sogni di Hollywood. Un ambiente creativo che ci insegna come l’Arte transiti in tutte le manifestazioni umane, dal piccolo oggetto da scrivania, alle possenti facciate