Le vicende di Atlantide e dell’emergenza abitativa ci mostrano come a Palazzo D’Accursio ci siano assessori che cercano di annodare i fili per risolvere problemi e un sindaco che all’ultimo disfa la tela. Si tratta di schizofrenia amministrativa o c’è qualcosa di diverso? Le dinamiche interne al Pd potrebbero aiutare a comprendere la situazione.
L’operato della giunta comunale di Bologna, negli ultimi mesi, potrebbe essere raccontato con un’allegoria mitologica.
Se potessimo impersonificare l’Amministrazione di Palazzo D’Accursio in una figura citata nei libri di epica, senza dubbio sceglieremmo Penelope, la moglie di Ulisse, che di giorno tesseva la tela e di notte la disfava per non cedere al corteggiamento dei proci.
Nell’esecutivo cittadino a tentare di annodare i fili dei problemi emergenti sono stati, da un lato, gli assessori Frascaroli e Malagoli, che con pochi mezzi a disposizione hanno cercato di mettere una pezza all’emergenza abitativa e, dall’altro, l’assessore Ronchi che ha inseguito la strada del dialogo per risolvere la rogna creata dalla presidente del Quartiere Santo Stefano Giorgetti contro Atlantide. Ogni volta che la tela sembrava ultimata, però, è arrivato il sindaco Merola a disfarla. Nel primo caso plaudendo agli sgomberi e trincerandosi dietro un’accezione ottusa del concetto di legalità contro gli occupanti di case (per quanto poi abbia fatto riaprire i rubinetti chiusi dalla legge del governo Renzi), dall’altro vaneggiando di una presunta “lobby gay” in città. Espressioni che ci aspetteremmo dalla Curia o dall’Ncd.
Qual è allora la linea di Palazzo D’Accursio? È quella intransigente dei sindaci-sceriffo o quella pragmatica del lavoro costante e silenzioso per la soluzione non traumatica dei problemi?
Ad un primo livello di analisi, il sindaco Merola sembrerebbe alquanto debole, per non dire incapace, nel gestire i suoi stessi assessori, nel comunicare loro la linea, l’indirizzo da seguire nel modo di approcciare i problemi.
Una fetta consistente della giunta comunale è così ingestibile da muoversi all’oscuro del primo cittadino? Difficile davvero immaginare uno scenario del genere.
Forse c’è un’altra chiave di lettura che potrebbe spiegare le manovre sotterranee che spingono a creare una situazione così paradossale e incomprensibile e che attiene al nuovo assetto del Partito Democratico e all’avvicinarsi delle elezioni amministrative del 2016.
Come sappiamo, la candidatura per il secondo mandato di Merola è stata autorizzata a cucci e spintoni dal suo partito. L’ala renziana, maggioritaria nel Paese, non digerisce molto la figura dell’attuale primo cittadino e i democratici felsinei hanno impiegato un po’ di tempo per ricomporsi attorno alla sua figura. Qualche recrudescenza, qualche sgambetto, qualche avvertimento è stato lanciato anche dopo la ricandidatura ufficiale e, visti gli attuali sviluppi, è facile ipotizzare che, da qui alle elezioni, non mancheranno nuovi episodi.
La svolta a destra assunta dal Pd a livello nazionale non può incontrare ostacoli sulla propria strada. Per quanto Merola non sia certo un baluardo della sinistra, come ha dimostrato nella vicenda del referendum sui finanziamenti alle scuole private, rappresenta ancora un’anomalia nella nuova linea del partito. Quel che occorre per avere il pieno sostegno dell’apparato renziano è omogeneizzare la linea, normalizzarla, anche a costo di abiurare dalla tradizione amministrativa del capoluogo emiliano.
Frascaroli, Malagoli e Ronchi, quindi, hanno avuto un approccio amministrativo troppo in linea con la tradizione amministrativa bolognese. Non hanno capito, proprio per il fatto che sono fuori dalle dinamiche del Partito Democratico, che era in corso una mutazione genetica e che il sindaco, se vuole continuare ad amministrare, è costretto a seguire le sirene renziane, il cui suono, purtroppo, è spesso lo stesso delle sirene della polizia.